Lascia sgomenti la notizia del padre ottantenne che, a pochi chilometri da Milano, a Osnago (Lecco), ha ucciso la figlia quarantacinquenne disabile e poi si è suicidato. Non ci sono parole per cercare di capire il dramma di un padre solo, che non riesce ad immaginare un futuro sostenibile e possibile per la propria figlia. Ma questo messaggio di impotenza e di bisogno di futuro deve interrogare la politica. Per questo è stata pensata la Legge 112/2016 detta “Dopo di noi” che valorizza una nuova sinergia tra famiglie, ente pubblico e terzo settore, proponendo progetti di convivenza abitativa protetta per persone con disabilità grave, prossime ad essere prive del sostegno familiare.
Nel 2017 a Milano è nata SON, un’associazione che nel nome accoglie la cura per i figli (son = figlio) con un acronimo che lancia speranza oltre il presente: “Speranza Oltre Noi”.
«SON sarà una locanda che dovrà promuovere anche cultura, oltre che il ritrovare sempre quel fondamento spirituale che la dovrà caratterizzare. Sarà un luogo dove si può e si deve esprimere fantasia e bellezza e anche dove si può produrre “da artigiani”: ecco il perché dell’atelier della fantasia e il locale per giocare, suonare, cantare, leggere poesia, pensare». Così don Virginio Colmegna descrive il suo ultimo progetto, appena inaugurato, nato da una premura e una sollecitudine sollevata da famiglie con figli disabili, che hanno cercato di interpretare la legge del “Dopo di noi”.
Da qui nasce “Abitiamo il futuro”, un’iniziativa di interesse pubblico e generale, convenzionata col Comune di Milano, ma gestita e finanziata da privati. Si tratta di un’idea di abitare solidale, dove sperimentare e accompagnare l’autonomia di figli portatori di fragilità. Ma la nuova casa appena inaugurata non è un luogo chiuso su sé stesso, bensì un centro di vita e animazione culturale, aperto al territorio e accogliente verso altre fragilità. Vedendo, incontrando e ascoltando le persone che vi andranno ad abitare mi sono convinta di due cose. Innanzitutto che la famiglia è produttrice autentica di welfare, perché sa mettere in circolo le energie migliori per i propri figli e, associandosi con altre realtà, trasforma una fragilità e una fatica in nuova forza. In secondo luogo, mi sono convinta che dobbiamo cambiare prospettiva e linguaggio: non si tratta di progetti di inclusione, bensì di reciprocità perché il valore aggiunto di simili realtà è una risorsa enerme per il quartiere e la comunità, non solo sul piano urbanistico (basta vedere la trasformazione di un’area abbandonata, bonificata da privati e trasformata in nuovo verde a disposizione per il quartiere), ma ancor più per l’impegno sociale a creare un tessuto cittadino solidale e coeso, per il messaggio che manda alla città affermando che la vita è fatta di relazioni in grado di affrontare e superare ogni fatica, per la capacità di riconoscere in ciascuno un valore in cui investire per il bene comune, non solo un’assistenza da concedere.
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