Fino al 6 novembre è aperta la mostra “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente” presso il PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea. Una mostra che racconta «una realtà che alimenta i peggiori fantasmi e che suscita sentimenti contrastanti di attrazione e di repulsione, di paura e di curiosità», come racconta il curatore artistico della mostra, Diego Sileo. Soprattutto una mostra che fa emergere il fatto che le carceri «sono affollate di esseri umani che non possono essere lasciati soli, che devono essere aiutati a salvarsi dalla loro stessa “perduta vita”, dalla loro convinzione di non avere più alcuna possibilità di riscatto, da quella loro visione della “scomparsa di futuro” legata a relazioni radicalmente appiattite sull’azione passata», una sorta di discesa verso gli inferi raccontati dall’Inferno dantesco, che risucchiano il presente e annullano il futuro.
Tuttavia, questa viaggio verso la disperazione – continua il curatore – è «un percorso che, nell’interesse anche della collettività, dovrebbe concludersi con un’uscita a “riveder le stelle” (fisica o simbolica che sia per coloro che effettivamente dal carcere non usciranno mai), affinché il desiderio di giustizia non si trasformi in vendetta».
Con questa speranza, con questa convinzione il 29 ottobre 2021 è iniziato un corso fotografico conclusosi il 27 settembre 2022, che ha visto la partecipazione di 60 detenuti e 40 agenti della polizia penitenziaria di quattro istituti penitenziali milanesi (Casa di Reclusione di Opera, Casa di Reclusione di Milano-Bollate, Casa Circondariale San Vittore, Istituito Penale per i Minorenni Beccaria di Milano). Ciascuno aveva a disposizione le macchine fotografiche nei reparti e nelle celle; gli agenti di polizia potevano utilizzarle durante gli orari di lavoro. Il risultato è un racconto intenso, veritiero, esplicito, dalle tinte forti ed estremamente duro, che porta il visitatore a guardare la realtà da un altro punto di vista, non per riscattare il detenuto, ma semplicemente per guardarlo nella sua umanità.
La seconda esperienza è stata entrare nel carcere di San Vittore, guardare il carcere dal di dentro, parlare coi detenuti e confrontarmi con loro sulle attività.
Con la sottocommissione Carceri, infatti, abbiamo avuto accesso alla struttura penitenziaria che sorge al centro della città ed accoglie 840 detenuti uomini e circa 80 donne. Tra questi, uno dei sei raggi ospita soggetti tossicodipendenti e/o farmacodipendenti. In particolare, abbiamo visitato il Centro Diurno all’interno della sezione riservata ai giovani adulti (18/23 anni d’età), in funzione dal lunedì al venerdì: nel corso della mattina, propone attività laboratoriali di varia natura con l’assistenza di maestri d’arte.
Una visita che ha aperto domande e riflessioni sulla giustizia riparativa, sulla possibilità di lavorare sulla riduzione dei tassi di recidiva, sull’importanza di introdurre proposte costruttive all’interno delle mura carcerarie, attività non solo di intrattenimento, ma anche formative, con corsi professionalizzanti. Anche da questo passaggio ho imparato a guardare al carcere come a un luogo abitato da persone sulle quali va investito un lavoro di recupero e cambiamento, come direbbe Gherardo Colombo «correndo il rischio del bene» per promuovere un cambiamento nello sguardo e nei gesti di cura.
