Mentre sfilano su luccicanti passerelle le collezioni dell’alta moda per la prossima primavera/estate, io vorrei porre l’attenzione su un altro modo di fare moda, che metta al cento la persona, in particolare quella con disabilità, per permetterle di vivere appieno la possibilità di scegliere e di indossare un capo non solo pratico e funzionale, ma anche bello e alla moda.
Questo è un tema su cui si sta interrogando anche la Camera Nazionale della Moda Italiana, che infatti evidenzia che «Il nostro approccio alla Diversità e all’Inclusione implica il riconoscimento e il rispetto di esperienze di vita diverse dalle nostre e la denuncia di tutte le discriminazioni sociali che avvallino il privilegio per alcuni e lo svantaggio per altri». Ma il cammino è ancora molto lungo, perché la cosiddetta diversity oggi tutela la donna, le differenze di genere, gli stranieri e in ultima istanza si rivolge alle persone con disabilità. Si parla di adaptive fashion, ma anche in questo caso è facile scadere nell’esaltazione dell’abilissimo e focalizzare l’attenzione sull’atleta plurimedagliato, modello di un campione unico da imitare, che supera anche le persone senza disabilità.
L’attenzione che voglio porre al tema, invece, mette al centro la quotidianità di una normale persona che deve convivere con specifiche disabilità e che chiede un significativo cambiamento culturale all’industria della moda per potersi esprimere attraverso l’abito che indossa, così come desidera ogni persona.
Questo tema riguarda le case di moda, ma anche le istituzionale e gli ambienti di vendita (accesso al negozio, a un capo da poter provare, alla cassa che spesso è troppo alta per chi sta su una sedia a rotelle…).
Se riusciamo a impostare il discorso del design adattativo con un approccio integrale, ne trarremo un vantaggio per tutti, perché questa attenzione rilancia la possibilità di imparare a guardare con occhi nuovi l’umanità cogliendone le infinite sfumature e curiosità e dunque davvero integrando tutti.
Di questo tornerò a parlare presto.