Non posso tacere l’orrore della storia di Saman, la giovane diciottenne pachistana, probabilmente uccisa per mano dei suoi stessi familiari.
In questa vicenda, però, non voglio giudicare le leggi e i costumi di una famiglia o di una religione. Ma vorrei andare più a fondo nella questione che lega Saman ad altre donne, anche italiane, punite perché decise nel voler affermare la propria volontà contro quella di altri, prevalentemente uomini (anche se qui c’è la tragica compartecipazione di una madre). Donne che si trovano a dover affrontare, inermi e sole, una condizione minoritaria intrisa di sessismo e misoginia.
Su questo voglio fare alcune riflessioni.
Una mi porta a domandarmi perché Saman sia stata lasciata sola e sia diventata invisibile, dopo esser stata costretta ad abbandonare la scuola: c’è stata una falla nei servizi sociali, che forse dovevano intercettare questa situazione e proteggerla.
La seconda fa emergere l’importanza delle azioni di sostegno, prevenzione e promozione della parità di genere, lavoro che a Milano è in mano ai “Centri Milano donna”, sorti in questi anni nei singoli quartieri, preferibilmente in periferia.
In terzo luogo, la vicenda di Saman ci insegna che è assolutamente necessaria una collaborazione tra istituzioni diverse, sia a livello culturale che religioso, affinché si prenda atto della violenza contro le donne, la si riconosca e la si denunci con coraggio, si lavori insieme a mediatori e formatori per informare, prevenire e tutelare le donne che hanno come punto di riferimento le loro comunità.
Infine, ancora una volta mi convinco che il riconoscimento della cittadinanza per le donne nate e cresciute nel nostro Paese possa essere una strumento che incentiva l’autodeterminazione e attutisce i ricatti di padri e mariti prepotenti.
Lavoriamoci insieme.