Il 10 maggio scorso, Silvia Romano è arrivata in Italia, è scesa dall’aereo e abbiamo appreso che ora si vuole chiamare Aisha. Ammetto che sono rimasta impressionata dal racconto della sua conversione all’Islam. Tuttavia, non riesco a non gioire per il fatto che sia tornata a casa, dalla sua famiglia. Mi hanno altrettanto impressionato i commenti malevoli su di lei, sul riscatto pagato, su un presunto complotto… Ma davvero non siamo capaci di gioire e basta? Non siamo capaci di guardare gli occhi e il sorriso di una giovane donna liberata dopo 536 giorni di prigionia? Davvero è più importante il suo vestito del suo sguardo?
Siamo d’accordo che la spettacolarizzazione mediatica del rientro non è stata affatto prudente, né per tutela della giovane italiana né per la strumentalizzazione che potrebbero averne fatto i suoi rapitori, a vantaggio della propaganda che mette in luce la vulnerabilità dell’Occidente.
Ma è Silvia stessa che chiede «di non arrabbiarvi per difendermi».
Invece, l’insieme di questi fatti mi ha fatto riflettere su alcuni punti, anche col pensiero rivolto a nostri connazionali ancora prigionieri o vittime di sequestratori internazionali, come padre Paolo Dall’Olio (rapito nel 2013 in Siria), padre Pier Luigi Maccalli (settembre 2018) e il turista Nicola Chiacchio (febbraio del 2019) in Mali.
Uno: esperienze di volontariato, ma anche di studio o lavoro nei Paesi in via di sviluppo vanno affidate ad organizzazioni capaci di mettere in pista una specifica formazione sulla sicurezza e una conseguente selezione di chi può attendere operazioni in paesi a rischio. Pare che non l’avesse fatto l’associazione Africa Milele con cui era partita Silvia.
Due: le organizzazioni, ma anche le università e le aziende che mandano italiani in zone a rischio, devono garantire la loro sicurezza sul piano legale. Il che significa creare reti tra le associazioni, far lavorare in gruppo i cooperanti, tener vive relazioni con le rispettive istituzioni italiane nei paesi di destinazione, quali consolati e ambasciate. Silvia avrebbe raccontato di essere stata lasciata sola a portare avanti il progetto di educativa di strada nel villaggio di Chakama. Nel 2015 era stato stilato un protocollo di sicurezza che imponeva un «indispensabile equilibrio tra l’imperativo umanitario che obbliga a perseverare nell’azione di aiuto e di protezione e la valutazione del rischio per gli operatori». Perché il capitale umano che è in gioco ha prezzo ben più alto dell’aiuto umanitario che si va a portare.
Tre: gli stessi che hanno azzardato commenti indegni e irricevibili a Silvia Romano, hanno mai alzato la voce per protestare contro il fatto che l’Italia vende armi a questi stessi Paesi e associazioni terroristiche?
Beati gli operatori di pace.